La montagna che canta

Tra i cespugli scuri dell’ontano, esuberante essere vegetale che contende sempre più metri al prato trasformandolo in bosco, un palco orgoglioso dondola, sbiadito e usurato sulle punte, ramificato verso il cielo di settembre come un saluto.

E’ un cervo, sono i cervi della valle Albano, in alto Lario.

In piedi ad ascoltare, dalla terrazza erbosa del rifugio, tento di indovinare da dove venga quel bramito potente da terribile orco delle favole, o questo più vicino, ripetuto, ostinato come un ragliare triste d’asino, o quell’altro ancora romantico, disperato, invasato grido d’amore e desiderio.

Quanti sono?

Ma non c’è qualcosa che possa afferrare l’onnipresente eco di queste voci e isolarla in un numero né in un concetto definibile, animale, pianta o sasso, in ciò che esiste in sé e per sé.

In fondo potrebbe essere la stessa cima nascosta dalle nuvole a bramire, oppure il sorbo rosseggiante disegnato sull’oro del crinale, oppure la terra sotto i miei piedi.

In settembre la valle bramisce tutta intera e il coro dei cervi è il suo pensiero, il suo pianto e la sua risata.

E’ ciò che la montagna riesce ancora a dirci, attraverso il fiato degli animali.

E dappertutto e in nessun posto noi li ascoltiamo, come l’anima che attraversa i sentimenti e li rende vivi, indipendenti da noi e dalle nostre difese. Interconnessi.

Sto camminando sul sentiero pianeggiante che conduce alla testata della valle e l’autunno che arriva mi copre di ori, rossi, verdi, faggi rugginosi, steppe imbiondite, larici che per ultimi, in novembre, spiegheranno per bene che cos’è la gioia del colore giallo, abeti che perseverano tenacemente a mantenere i colori tonificanti della primavera.

Una bigiarella fugge timida in un cespuglio, sciami di corvi, forse anch’essi in preda all’entusiasmo del momento, vociferano in strani modi che non avevo mai sentito, piccoli gheppi appesi al cielo, in fila ordinata sulla verticale della cresta, aspettano che dopo tanto pioggia il loro pranzo si faccia vivo.

Le nubi veleggiano soffici in un gregge sconfinato che vorrei accarezzare.

Così a volte si vede, a volte no, questa vallata meravigliosa, le sue praterie scompaiono alla vista, ma non all’udito: un cervo richiama a pochi metri, sarebbe inutile cercare di scorgerlo dietro questo sipario fitto di nubi, ma è vicino, il suo grido imperiosamente attraversa le orecchie, i miei capelli bagnati, il corpo e il cuore.

Improvvisamente, in un farsi strada incredibile di limpidezza, appare l’alpe che ospita l’arena amorosa dei cervi.

Le nuvole si fanno da parte finalmente e ad uno ad uno appaiono.

Cervi giovani, con il collo ancora slanciato e il corpo snello, vagano lanciando richiami incerti se essere impacciati o coraggiosi, cervi più anziani, già piegati dal peso degli anni e di palchi stupendi, controllano gruppi di femmine al pascolo, tentano qualche inseguimento, ma quelle fuggono, ancora timide o forse soltanto annoiate da tutto questo sfoggio di virilità.

Un piccolo palco ad una sola punta spicca sul capo di qualche novizio, che bruca tra l’erba: nemmeno ci provano ad entrare in competizione.

Cerve premurose tengono accanto a sé i piccoli dell’anno che trotterellano stupiti dietro alla madre, ma sembrano sapere che tutto questo significa una lezione, un distacco ormai vicino.

Qualche camoscio osserva perplesso il ritrovo e fugge con pochi balzi sui pendii più elevati.

Così restano solo i cervi protagonisti, con i loro occhi umidi e le loro voci accorate, del resto sono talmente tanti che nessuno oserebbe rubare loro la scena, la natura oggi ha affidato a loro il compito di parlare di sé.

E loro non si fanno di certo pregare.

Scostando veli di nuvole, un grande cervo anziano,palco quasi improbabile, monarchica criniera e monolotica gobba da vecchio testone, passeggia altezzosamente sui pascoli alti, seguito passo passo da una cerva devota. Tacciono.

Sono loro due i custodi della valle, soli nel loro strano silenzio in mezzo ai tanti muggiti d’amore.

Onirici nel loro apparire e sparire tra le foschie del mattino piovoso, magici nella loro perfetta indifferenza a tutto.

Quando hanno affrettato il passo per allontanarsi e poi sparire, mi è sembrato di svegliarmi da un sonno dolce e pieno di sogni.

Così dev’essere davvero stato, se ancora adesso posso credere che una montagna ha cantato per me.

La Valle Albano si trova sul confine italo svizzero e sfocia dopo un percorso di 12 km a Dongo, sul Lago di Como. Lungo i suoi fianchi si snodano i percorsi degli spalloni e le linee di trincea della prima guerra mondiale. Ciò non toglie che sia uno dei luoghi di maggiore biodiversità del Lario, con una presenza faunistica protetta di rilievo assoluto. Andateci con rispetto e binocolo a portata di mano, le sorprese non mancheranno.

Una replica a “La montagna che canta”

  1. Che bello!
    Sembra di esserci, di sentire i profumi, i fruscii, i bramiti…

    Piace a 1 persona

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