E’ tutto qui?

Tu morivi e io portavo fuori il cane. E’ tutto qui, mamma.

Tu morivi da mesi e io lo vedevo, ma sia chiaro, come quando si guarda senza voler vedere. Comunque lo sapevo, capisci, anche quando tutti dicevano che ma no, ma no, dovevi soltanto mangiare di più e stare tranquilla. Ma no ma no ma no.

Era l’acqua che si ritira prima dell’onda.

Sono certa che lo sapessi anche tu ma tutte e due tacevamo per sottinteso patto, perché della morte non si può mica parlare, dai. Specie se quella che se ne deve andare è tua madre che poi, intendiamoci, ha 87 anni, la classica bella età, tua madre che ha perso suo marito da qualche anno e nel giro di poco tempo anche un figlio, tua madre che da allora vive con te perché ormai è diventata un uccellino fragile e quando parla fissa sempre un punto sopra la spalla, che forse è l’infinito. Credo sia perché ha smesso di vivere già da un bel po’.

Comunque si taceva noi due, o meglio si parlava di quelle cose di cui si ciancia per non rivelarsi altro, per dirsi ti amo e mi preoccupo per te ma lasciamo stare i discorsi seri, vuoi? Intanto tutto proseguiva, ripiegato con cura nella scatola quotidiana. I giorni si dipanavano tra le tue abitudini di anziana e le mie fatiche di figlia, tutto fatto in apnea però, come per resistere e salvarsi. Però quando portavo fuori Clara, nel bosco, lì sì che respiravo.

E viene adesso Clara

Clara che salta

Clara che mi guarda

e ancora una volta mi salva.

Nelle nostre escursioni Clara sa sempre con certezza qual è il momento del gioco e quello del cammino. È un Border collie di due anni. E ho detto tutto. Ogni volta le cose con lei vanno così: io le infilo la pettorina, almeno ci provo, mentre lei si rifiuta egregiamente di collaborare, schiacciandosi piatta piatta per terra e fissandomi con l’occhio terribilmente afflitto. Non so per quale motivo voglia giocarsi sempre questa patetica carta per poi schizzare via, una volta che l’ho assicurata al guinzaglio, tutta coda e felicità, con me che arranco dietro di lei rischiando il collo sulle scale. In strada tira come se avesse le tenebre alle calcagna, ma quando raggiunge il ponte sul Lambro il suo demone finalmente si placa. Presumo sia un peculiare modo di esprimere eccitazione che le è rimasto appiccicato addosso, come una qualche forma di nevrosi canina a me incomprensibile.

A parte il suo considerevole narcisismo e la strana sindrome dell’occhio afflitto, Clara è un bravo cane, avvezzo a stare spontaneamente al passo del padrone per antico lignaggio o forse perché personalmente non le interessa l’avventura in solitaria. A lei preme semplicemente stare con me all’aria aperta e fare cose, possibilmente tante e tutte insieme. Comunque insieme attraversiamo Barni incrociando i soliti quattro gatti, che qualche volta sono gatti per davvero e infine, arrivate all’imbocco del sentiero dei boschi di Piazz, la lascio libera e iniziamo il cammino.

Per andare nei boschi con un cane occorre prendere rispettosamente posto in un carrozzone di esseri, tutti molto vitali e a modo loro parlanti: gli uccelli che frulleranno via nel sottobosco, i cinghiali imboscati, il muflone che fuggirà con il suo branco, gli alberi che canteranno le loro preghiere, le nuvole che tremolano verso l’orizzonte e non ultimi i bastoni da tirare, ché anche un pezzo di legno ha un’anima e non sono certo la prima a sostenerlo. Il corpo lucido di Clara freme avvicinandosi al prato, mi sbircia di sottecchi mentre cerco tra le foglie, pronta a decifrare il minimo cenno da parte mia. Non appena raccolgo il bastone adatto, inizia a saltare in cerchio e a camminare su due zampe abbaiando elettrizzata. Passasse il circo, in quei momenti, potrei venderla a peso d’oro. Insomma lancio il primo legno e lei parte alla rincorsa, lo prende e ritorna da me . Poi un altro e ancora lei corre a prenderlo e torna indietro. Immancabilmente, con il terzo bastone si completa il rito e questa volta, con la coda dritta e tre rami belli grossi trattenuti in bocca a fatica, Clara prosegue il cammino impettita e boriosa, finché non trova un angolo appartato in cui gelosamente nascondere il suo bottino. Tutta la pantomima ricomincia nel successivo prato.

Altre volte invece si cammina e basta, lei davanti e io dietro e allora succede che le nostre anime si allungano, si toccano e salgono su per la linfa degli alberi, escono fuori in cielo e tornano giù sotto forma di impronte sul sentiero. Attraversiamo vecchie mulattiere e passaggi rocciosi che conducono a picco sul lago, al cospetto delle Grigne, montagne tanto più impegnative di queste, ma a noi piace stare qui a guardarle e sentire i raggi del sole su di noi, a consolarci di qualche indicibile pena. Sono sicura che anche Clara ne ha, poiché i cani sanno pensare. Qualche volta si va da Crezzo alle risorgive del Lambretto, torrente fedele, che porta quasi sempre acqua, a differenza del suo illustre parente Lambro, assai più avaro e lunatico. Qui il mio cane sfodera le sue misteriose analogie esistenziali con le rane: tutte le pozze del ruscello, ma proprio tutte, sono sue. Al suo travolgente arrivo qualche trota fila lesta sotto una pietra, le ballerine oscillano titubanti e la poiana vola in cerchio spostandosi più in là. E Clara salta fuori e dentro l’acqua.

Dentro e fuori, dentro e fuori.

Clara che corre

Clara che soccorre

Clara che cattura tutta la paura.

Addomesticava così, Clara, il groviglio che avevo dentro in quei giorni, portandoselo in spalla lei per tutta la durata di quelle camminate. Tutto un autunno passato così, sai mamma, a trattenere il fiato in casa e sputarlo fuori in mezzo al bosco.Solo che camminare certe volte ti porta ad inciampare nei ricordi.

Annusavo nell’aria l’odore acre dei funghi e facevo un balzo indietro nel tempo, quand’ero la bambina che aspettava che tu venissi a prenderla a scuola, divorata dall’ansia e sicura che non saresti mai più arrivata, che ti eri dimenticata di me; ma poi ti vedevo sbucare con il tuo cappotto grigio, a passo svelto. Allora mi scordavo in un secondo di tutta la paura, buttavo da parte la cartella e correvo, tutta coda e felicità pure io, a giocare con mia sorella e mio fratello. Che allora era ancora vivo, e adesso non c’è più, non c’è più, non c’è più veramente, dio, dov’è che si va a finire tutti, ma non ci pensiamo camminiamo camminiamo, vai Clara, prendi il bastone dai.

Tutto l’autunno così.

D’altronde qui la bellezza appassita di fine ottobre non aiuta a riaversi dagli incantamenti della memoria, anzi ti sprofonda più che può nei suoi ori rugginosi, nella voce dei pettirossi di cristallo tra i rami, nel muschio che attutisce i passi e accende un’insensata voglia di tornare, senza sapere dove si potrebbe tornare, però. L’autunno è una stagione stregata in Vallassina, roba che i milanesi non la sapranno mai davvero questa cosa, han voglia a mettersi in coda tutte le domeniche per venire a cercarla.

In ogni caso, un cane ti riporta sempre con i piedi per terra e Clara ci riesce benissimo: lo fa tuffandosi in ogni pozzanghera e saltandomi addosso tutta sporca di fango, poi tornando indietro a cercarmi ogni volta che il sentiero svolta, per accertarsi che non sia volata dietro a qualche malinconico sortilegio. In più di un percorso, camminando da queste parti, si arriva fino a intravedere le cime dell’alto Lario, che sono tanto più selvagge di questo piccolo triangolo di paesi e boschi in cui abitiamo. Quest’autunno le ho spesso intraviste, scurite sotto cieli bassi di nuvole sottili e guardandole sentivo dentro un desiderio di calore familiare delicato, quasi trasparente, mescolato a un presagio di impermanenza e vuoto.Perché io lo sapevo, mamma, eccome se lo sapevo, anche se tacevamo sempre io e te. Ma poi Clara scodinzolava via e io la seguivo, passo dopo passo diventavo più leggera, indefinita, impalpabile, diventavo quell’orizzonte di nubi basse. Qualche volta camminare significa mettere in pratica i propri sentimenti.

Cammino nel bosco

che bene conosco

cammina cammina

la fine è vicina

Più tardi, quando eri troppo malata, non sono più uscita di casa. Non potevo lasciarti sola, anche se in quel momento probabilmente eri più sola di quanto tu lo sia mai stata in tutta la tua lunga vita.Tra te e me si è messa di mezzo una porta invalicabile, lasciata socchiusa però, a far corrente lasciando intravedere il mistero che ti aspettava. Forse avremmo potuto dargli un’occhiata insieme prima che tu partissi, avremmo potuto parlarne, magari ne avresti avuto meno paura, ti saresti attaccata di meno al tuo involucro di dolore e malattia. Ma invece no, non ne abbiamo avuto il coraggio, io mi limitavo a parlare di cose sciocche per farti compagnia e distrarti. O forse è soltanto che in certi momenti le parole non servono a nulla.

Quante ombre che non riesco più a ricordare in quei giorni di transizione, attraversando le oscure lande del Regno di Nostra Signora Morfina, abbi pietà di noi e dei nostri poveri corpi consumati dal dolore e dal delirio. Per forza ho dovuto dimenticarmi di Clara e dei boschi. Lei mi teneva d’occhio, dormicchiava o correva su e giù per il giardino; sono sicura che sentisse il mio star male, che lo accettasse per quello che era e che aspettasse tempi migliori, grazie alla muta e incrollabile sua fiducia da cane. I cani si illuminano se sei felice e si spengono quando sei giù, lo fanno veramente. Solo chi ha avuto un cane può capire il legame vitale con un essere così diverso, ma che sa vedere il mondo anche dal tuo punto di vista.

Per il resto mi sforzo di ricordare l’esatta sequenza degli avvenimenti di quei giorni, ma le cose mi sfuggono dalla testa, come quando ti svegli dall’anestesia dopo un’operazione. Ho fatto il vaccino, sì, ed era Natale fuori, certo. Lo dico perché c’era l’albero fatto in cucina e i vicini che passavano per gli auguri, ma non perché fosse veramente Natale in casa mia. Poi tu sei andata in ospedale due giorni, ma ospedale è una parola fuori luogo: ti hanno trattenuto in pronto soccorso, in reparto non ci sei mai salita.

Paziente oltre i limiti, queste le parole sentenziate sulla lettera di dimissioni.

Ti hanno rispedita a casa confusa e prosciugata dalla paura, un sacco vuoto da riempire di analgesici e bugie.

Forse è importante, o forse no, ma mi ricordo anche che in quei giorni è arrivata una busta con sopra il tuo nome. Era un abbonamento scaduto e io ho pagato la fattura, che cosa stupida che fatto ho pensato subito, che cosa inutile, continuerò a ricevere la sua rivista preferita anche dopo. Dopo? Dopo che cosa?

Dopo dopo

il tuo cuore se lo mangia un topo.

In effetti esiste incredibilmente un seguito, la vita non si arena in quella palude di giorni fragili e tutti uguali. Sembra che non potrà mai finire il giro sulla giostra di lacrime soffocate, voci che sussurrano, riti di passaggio messi in pratica dalle infermiere che a me parevano sorelle delle guaritrici di un tempo. Nelle nostre valli erano tante e in tante hanno fatto una brutta fine, forse perché saper accompagnare nel mondo di là è un dono misterioso che incute timore in chi non lo possiede.

Ma poi quella giostra si ferma e con lei finiscono i giorni identici alle notti e le notti di veglia che ti divorano la sanità mentale. Alla fine il dopo è arrivato.

Ed è fatto di strane sensazioni, di un odore strano che mi riempie le narici, di incubi dimenticati al mattino, di un’ingovernabile e assurda paura del buio quando viene sera, di fitte lievi allo sterno e di sentimenti intrappolati in qualche angolo nascosto della mente. Quando ti muore qualcuno la mente risparmia energie per farti sopravvivere, azzera la memoria e insabbia tutto, anche i ricordi di quand’eri piccola e tua madre era un essere umano vivo e sorridente e non quel bozzolo di sofferenza, rannicchiato in un letto con le sbarre.

Così mi sembra di non provare più amore per te mamma, ma d’altra parte la mente non può mica fare distinzioni o sottilizzare, se deve salvarti dall’abisso: si spenga la luce, intanto, poi si vedrà. Ovviamente il corpo non apprezza questi metodi intransigenti, il mio corpo i suoi ricordi se li vuol conservare integri né vuole abolire nell’oblio le carezze con cui è cresciuto e allora iniziano la nausea, il mal di testa, gli incubi, le strane paure. Diventa un tormento anche aprire la porta su quel buco nero che è stato la tua stanza. Provo ad accendere la luce prima di aprire, come se schiacciare l’interruttore servisse a cancellare il buio. Io ci sto immersa ormai in quel buio. Solo fino al collo però, perché la testa deve restare fuori, gli occhi devono vedere, le orecchie sentire, il naso annusare.

Comunque sia vado avanti a tentoni, con la testa così. Staccata dal corpo. Porterò fuori ancora il cane, lo prometto. Farò la brava, mamma, lo prometto. Ma non ho più luce, capisci? E con la tua stanza rimasta vuota senza di te ci dovrò fare i conti prima o poi.

Venti gennaio

pugnale di acciaio

ci bussa alle porte

la Signora Sorte

Venti gennaio duemilaventidue

le mie lacrime sono le tue

La morte ha i denti marci, affondati in una mano scarna che ricade tra le lenzuola. Sono le dieci del mattino e il sole spunta dalla montagna, d’inverno sorge tardi sulla piana di Barni. Sei morta mentre il sole saliva e riempiva la tua stanza di luce. Casualità.

Io ero ferma ai piedi del letto divisa a metà, una me che sbatteva impazzita contro le pareti della mia testa e una che invece osservava ogni sussulto, ogni smorfia, alla ricerca dell’esatto istante che desse la certezza del passaggio. Ma era soltanto terrore anche quella pignoleria, sai mamma?

Non respiravo, non respiravi.

Guardavo l’orologio alla parete e contavo da quanti secondi non inspiravi aria, cercavo di tenere il conto di una respirazione che già era lenta e scombinata da un’ora almeno. Conta, conta che adesso riprende aria. Se conti non si ferma. L’orologio è capace dunque di non spegnerti l’interruttore? Qualcuno lo accenda, ti prego respira.

Aiutami, ti prego aiutami.

Non hai fatto che dirmi questa frase per settimane, ora tocca a me pregarti. Sarà la morfina, ma hai lo sguardo vuoto. Ti prego aiutami. La morte somiglia ai romanzi, però ha i denti marci e questo non si può seriamente scriverlo da nessuna parte. Il dente marcio appesta i bucaneve nel vaso sul davanzale. Il dente marcio sbava sulla parete e oscura il sole.

Alle ore 10.12 ti ho cercato finalmente la mano e mi è scivolata via inerte sul lenzuolino con i fiorellini rosa. Immobile. E adesso che sono passati già tre mesi, io sono ancora lì, ai piedi di quel letto. Non sono ancora riuscita a venire via veramente.

Dolore dolore

che conti le ore

dolore dolore

cattivo il tuo odore

I giorni successivi alla tua morte sono una grande bolla di sapone, liquida, leggera, nauseabonda. Esistenza diminuita. Risparmio di energia. Un fetore galleggia nell’aria perché la morte ha perso qui il suo maledetto dente. Ma nessuno lo sente a parte me, è tutto nella mia testa?

La gatta è muta, accoccolata sulla tua poltrona dell’Ikea e tu quasi sorridi da morta, rimpicciolite le tue sembianze in una bambolina di cera adagiata sul letto. Sembri serena, ma chissà dove sei.

La mia gatta vorrebbe avere artigli di tigre per uccidere l’uomo che ti veste e che l’ha cacciata via dalla stanza. Io pure vorrei. Ma non ho artigli, non sono mai stata una tigre, semmai un mezzo coniglio mezzo cavallo, non ho neanche la vista profonda della gatta, che sta guardando fisso qualcosa che io non saprò mai. Mi mancano le diottrie per capire.

Non ho più luce, ma l’ho già detto vero? Illumina la stanza, bambolina. Tu non sei mia madre, sei la parvenza vitrea del dente marcio che sta masticando tutta la mia casa. Vai via, vai via, vai via. Ti prego vai via.

E poi.

Poi la cadenza del cammino scandisce il riprendere fiato, è necessaria a sopravvivere, perché se riesco a camminare riesco a non rompermi in centomila pezzi, chiaro. E’ Clara che mi porta fuori dal naufragio, Clara la traghettatrice di anime perse. Ha aspettato a lungo e sa che ora si può ripartire. Immagino che quest’estate faremo un viaggio a piedi, magari in Francigena, o da qualche altra parte, del resto siamo ben allenate.

Ma ora abbiamo ancora bisogno di stare qui, nei boschi della nostra valle, di questo posto che bello è bello sì, chi può negar lo, ma può anche scattare come una trappola per marmotte troppo lente:qui, se non hai un sogno da inseguire o almeno uno straccio di idea di cosa sarà la tua vita, ci puoi soffocare.

Eppure è un posto che è anche una porta aperta, da secoli, sull’incommensurabile. Luogo che cura, sapienza degli antichi riti che si è impregnata qui forse, nei trovanti di granito e nelle radici dei faggi secolari. Sarà perché è un triangolo che è una forma misteriosa, si sa, poi dal suo vertice si possono vedere luoghi meravigliosi, che tutto il mondo invidia e desidera.

Certo sì. Ma poi succede che ti giri, vedi dietro di te semplicemente un bosco.

Ascolti, senti un ghiro frusciare, il capriolo abbaiare a qualche sua paura, i primi allocchi della sera gettare il loro lamento. L’aria diventare di nuovo trasparente e impalpabile ed è in quel momento che il mistero dilaga, raggiunge ogni cosa, ti ingigantisce l’anima, le braccia, il collo, la testa, e una nuova capacità di sentire arriva a coinvolgere le foglie, i sassi, la terra, le formiche.

E siamo tutti insieme: capriolo, ghiro, foglie, allocchi, Clara e io. Dura solo un attimo però.

Ad ogni curva del sentiero, Clara si volta a guardare se ci sono, se sto bene, se sono con lei o sto pensando troppo e poi via di nuovo, con quel suo passo ciondolante che la fa assomigliare a un giovane lupo selvatico. Sempre davanti a me.

Ad eccezione di quel pomeriggio in cui siamo uscite per il primo giro dopo settimane di apnea e tu eri morta da pochi giorni, mamma. Quella volta, Clara mi ha coperto le spalle per tutto il tempo, ma anche gli alberi lo facevano, non chiedermi come ma si curvavano sopra di me, con quel loro silenzio vivo. Il sole filtrava e ho sentito in lontananza un picchio nero piangere. Ho pensato a mio padre, a mio fratello. A tutti quelli che sono dall’altra parte della porta. E a te, naturalmente.

Avevo in tasca il quaderno di poesie che ti ha scritto il papà, scoperto l’altro giorno per caso da mia sorella tra le tue cose, in un cassetto in cui nessuno guardava da tanto tempo. Ho aperto a caso.

Quando scende la sera

e la città si immerge

nell’oscurità

ti stringo vicino a me,

mio immenso amore,

tanto da sentire il tuo respiro

e i palpiti del tuo cuore.

Mille e mille parole belle

mi salgono dal fondo del cuore

che sussurrarti vorrei,

tra i gerani in fiore

Invece con immenso

mio sgomento?

Soltanto ti so dire: Amore.

Sgomento, sì. Immenso anche. Sai che in mezzo a quegli alberi ho sentito il tuo odore buono?

E’ tutto qui, mamma. Anche tu.

Questo racconto è tra i vincitori del Concorso LetteLario 2022 ed è stato pubblicato dall’editore GWMax

9 risposte a “E’ tutto qui?”

  1. Belle parole spiegazione perfetta anch’io ho avuto questi problemi quando nel 2002 è morta mia mamma e questo suo scritto mi ha fatto piangere molto ricordando tutto anch’io grazie molte Franco Giois

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    1. Ti ringrazio, sono felice che il mio racconto possa far mettere in condivisione un momento della vita di cui di solito si fatica a parlare, eppure è forse il momento più importante di tutti… La morte è un tabu che ci spaventa, ma è anche qualcosa che può unire le persone.

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  2. dolore, emozioni, tanti ricordi riaffiorati durante la lettura di questo racconto in forma impeccabile. C’è un mondo di amore che lo attraversa e collega tutti i cuori pulsanti di vita e di morte, di paure e tenerezze, comprese quelle dei quattrozampe. I miei più sinceri complimenti, son felice di aver incrociato per caso il blog che mi farà piacere seguire. Buona giornata

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    1. Grazie davvero… ma nulla avviene mai per caso 😉

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      1. ho sempre avuto dei dubbi in proposito, ma forse hai ragione 🙂 Grazie a te e alla tua bravura

        Piace a 1 persona

  3. Cara Mita, vorrei dirti tante cose, trovare le parole migliori che non stridano con le tue, che sono così belle.
    Ho letto il tuo racconto nel quale mi sono persa, perché ho trovato tante analogie con la mia di storia, fatta di momenti difficili che ho saputo affrontare grazie ad un cane a macchie col quale parlavo, facendo lunghe camminate nei boschi.
    A volte con l’anima che inciampava nei sassi, ma sempre con i suoi occhi protettivi addosso.
    Stavamo seduti di fuori, la notte, a guardare le stelle, a cercare un qualsiasi appiglio mentre aspettavamo: la riduzione della sedazione, i primi passi pesanti nella clinica riabilitativa, il suo ritorno a casa.
    Che c’è stato, certo.
    C’è voluto tanto e in quei mesi ho cercato di lavar via quella grande macchia che si era formata nel mio cuore. (Ma sta ancora lì e lì la lascio).
    Il mio cane nel frattempo se n’è andato: lo cerco ancora, mi capita di sentire il fruscio della sua lunga coda… Credo che solo chi ha avuto un cane possa capire.
    Grazie per aver condiviso il tuo toccante racconto: mi hai saputo emozionare.
    Un grande abbraccio.

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    1. Il fatto che tu abbia voluto condividere in questo spazio questa tua toccante testimonianza, è per me un segno di fiducia e lo considero un dono. Posso solo dirti grazie…

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