Ultimamente la morte è venuta a trovarmi spesso.
Qualche gatto, mio padre, mio fratello, mia madre, parenti alla lontana, vecchie conoscenze e amicizie.
Non credo con questo di essere un caso strano: è la vita, come si dice.
Però una parte di me, la più superstiziosa forse, ogni volta si è rincantucciata tra le ragnatele della mente, brontolando e rimuginando: le viene il mal di testa, recalcitra, si sente ingiustamente tirata in mezzo in faccende che non la riguardano. Signorina Superstiziosa.
Un’altra parte, invece, smarrisce la via, si perde ad osservare dettagli inutili, inutilissimi, che al massimo potranno diventare poesie. La Poetessa delle Scomodità.
La terza parte, infine, inghiotte il nodo in gola, si mette un bel paraocchi e minimizza tutto, tirando dritta sulla corsia dei doveri. Miss Paraocchi.
Si fa sempre quello che si deve fare.
Vita, morte.
Testa o croce.
Croce.
Così lo scorso giugno, in una mattina azzurra, pulita, precisa nel definire i contorni delle cose, sono andata al cimitero del paesino in cui sono cresciuta, per assistere all’esumazione dei miei nonni materni.
Con me c’era mia sorella, del resto siamo rimaste soltanto io e lei in famiglia.
All’ingresso qualche estraneo, in giro per turismo tra le vie del paese, si allontana velocemente una volta capita l’antifona, mentre più in là ci saluta il dipendente del Comune, un uomo gentile con cui scambiare sguardi che si incrociano svelti, quasi colpevoli.
Come biasimarci tutti, d’altra parte. In fondo siamo lì a disturbare defunti.
In un mattino dorato, per giunta, quando si potrebbe essere ovunque, al mercato, in ufficio con le finestre aperte, in riva al lago, persino a curarsi qualcosa in ospedale o a tirarsi una martellata su un piede: e si sarebbe comunque più a posto con il mondo che non lì, dove ci troviamo noi, a fare quello che stiamo per fare.
Ma stavolta è uscita croce, e si va avanti.
Sul viale è parcheggiato un camioncino, accanto alle tombe invece gli operai stanno trafficando con una scala.
Non sono italiani, mi sembrano pakistani. Sono in tre.
Nonostante la scala che è il doppio di loro, la fatica di spostare lapidi, le nuvole di polvere di cemento che si sollevano ad ogni gesto, hanno uno strano modo di muoversi pieno di silenzio, che mi ricorda dei monaci. Ma poi penso di essere suggestionata dal momento e dal luogo e rivolgo lo sguardo altrove.
C’è anche una specie di gazebo di plastica, tirato su all’occasione, che può celare una parte dei lavori ma non i rumori che ne fuoriescono.
Ok, è lì che lo faranno. Nelle mani si insinuano il sudore del disagio, l’indolenzimento della paura.
Subito in coda arriva la curiosità, devo dire tenendosi però a debita distanza. Va con i piedi di piombo, la mia curiosità, oggi.
“A che ora iniziano?”
“Eh, sono qui da stamattina alle sette, tra dieci minuti fanno i vostri nonni, ma i ragazzi hanno avuto una mattina difficile, hanno centrato un cancelletto con il camion per venire qui, adesso arriva il tecnico per la denuncia”
Annuisco per cortesia ma le sue parole mi scivolano addosso.
Qualcos’altro attira tutta la mia attenzione.
La tomba di mia nonna è aperta e vuota, mentre in quella di mio nonno, accanto, spunta fuori la bara, dio ma lo fanno veramente allora.
Cosa pensavi, miss Paraocchi, che era tutto uno scherzo?
La Superstiziosa è sul piede di guerra, lo è già da stamattina alle sei meno un quarto, quando sono saltata giù dal letto insolitamente mattiniera, per il nervoso che avevo dentro.
Il dipendente del Comune sta continuando a parlare, ma intanto c’è quel buco aperto lassù, che guarda nel vuoto, come un occhio cieco.
“Io non so se andrò là vicino, Stefano”
“Non preoccuparti, non c’è esigenza, ti capisco, io sono qui tutti i giorni da una settimana e mi è bastato vederne uno. Tra l’altro era un signore che incontravo da bambino, madonna che roba. No, no, non ci vado più là mentre aprono”
Gli operai pakistani intanto appoggiano finalmente la scala al muro, hanno la mascherina e gli scarponi bianchi di gesso.
Sono vestiti di nero, vedo le loro spalle sfiorarsi mentre uno sale e l’altro sorregge la scala.
Cosa passerà in questo istante nelle loro teste, cosa racconteranno alla moglie a fine giornata.
Avranno più o meno la mia età, no, sono più giovani, no. Non hanno età.
Comunque ci sono le rondini che tagliano il cielo a brandelli, guarda.
Passano radenti le rondini, adesso alzo le braccia e le lego strette ai fili della mia paura.
Poetessa delle scomodità stai zitta, per piacere.
Aiuto.
“Davvero possono prendere una bara dall’alto e tirarla giù a mano con una scala?”
“Sono in gamba questi ragazzi, sì”
Io veramente mi figuro già mio nonno che casca giù completo di bara e fa esplodere nell’aria le stesse filastrocche di santi con cui da piccoli ci impartiva le sue lezioni di miscredenza alla pistoiese.
Ma il nonno non cade e di conseguenza tace.
Gli operai pakistani ci sanno fare. Come sono silenziosi, sembra che stiano camminando sulla neve.
Se potessi descrivere lo straniamento che si prova nel vedere le bare dei propri nonni uscirsene fuori dal buco in cui sono rimaste per trent’anni, direi che è come assistere alle riprese di un film in un luogo che conosci bene: ti rimane uno stupore un po’ cretino negli occhi, per il guardare cose arcinote, sapute a memoria così tanto che ormai non ci fai più caso, con un occhio improvvisamente divenuto vergine, scevro di qualsiasi memoria.
Quante centinaia di fiori ho portato su queste tombe, e dentro c’erano le bare, le bare che contengono i miei nonni. E mi pare di non essere mai stata qui prima d’ora.
Direi questo, sì.
Ecco, però non lo posso descrivere tutto questo straniamento perché chiedo scusa, ma dentro mi sta crollando l’impalcatura, la Superstiziosa mi sa che si è nascosta sotto il letto stamattina, Miss Paraocchi sta cercando freneticamente uno straccio di diversivo nei cassetti della razionalità per far conversazione con l’impiegato del Comune, e Poetessa, beh, lei è al tappeto. Muta. Scomparsa. Non pervenuta.
Il nonno sta scendendo insieme ai pakistani, va bene, ma nonna dov’è?
Già sotto al gazebo, ovvio. E’ sua la bara che stanno aprendo.
Quei rumori nascosti dal telone di plastica bianco sono il concerto di accoglienza per mia nonna che torna a vedere il sole dopo tutto questo tempo. Speriamo non si spaventi, perché di sicuro non capirà mica dove si trova. Menomale che ci sono i pakistani.
Intanto quel pulcino tremante in cui si è trasformata piano piano mia sorella da quando siamo arrivate qui, rimpicciolendosi tutta a parte i suoi grandi occhi verdi, dice sottovoce ma fermamente che vuole andare a salutarla. E’ completamente pazza, penso.
Ma non potrei fermarla nemmeno se la legassi qui vicino a me con una catena, che per inciso è proprio quello che vorrei fare: incatenarla qui vicino a me, abbracciarla fortissimo e forse piangere.
Le lacrime però non vengono a comando, no, e nemmeno si possono comandare le sorelle pulcino dal cuore di leonessa, quindi lei va. E io resto lì.
Aiuto.
Anche se oggi mi sembra familiare quanto potrebbe esserlo Marte o il Polo Nord, questo è pur sempre il cimitero del mio paese e mia nonna mi ci portava spesso da piccola.
Era una delle nostre tipiche passeggiate, una volta i bambini venivano portati nei cimiteri, non so se a scopo educativo o se perché semplicemente non ci si vedeva nulla di strano. E lei di ogni volto stampato sulle lapidi sapeva una storia. Qualche volta portavamo fiori a qualcuno seppellito da poco.
Mia nonna Luisa era un donnino piccolo e morbido, aveva tutta la dolcezza un po’ asprigna delle romagnole, era di poche parole ma tanto amore, impastato di mangiarini, sorrisi e qualche rara sgridata. Portava sempre noi sorelline con sé a fare la spesa e poi la quotidiana passeggiata che comprendeva il cimitero come tappa obbligata.
Io avrò avuto sì e no quattro anni, forse cinque, amavo la sua mano che stringeva la mia e credevo che questo fosse una cosa scontata ed eterna, amavo soprattutto la pressione della sua fede nuziale sulla mia manina, ma mi piaceva anche sentire la sua voce raccontare storie che non sempre capivo, ma andava bene lo stesso.
Erano storie di gente del paese, per me non erano proprio morti, non avevo ancora chiaro quel concetto in testa, anzi per me non si trovavano nemmeno fisicamente lì: diciamo che era come sfogliare con lei un album di vecchie fotografie, assaporando l’assenza e presenza allo stesso tempo di quelle antiche persone, ormai sbiadite.
Di certo non pensavo ai corpi seppelliti.
Nell’aria un odore leggero di fiori appassiti e di acqua.
Poi la nonna, che non era né scontata né tantomeno eterna come pensavo io a cinque anni, è morta, avevo diciotto anni e ho pianto tanto, ma a quell’età si fa più in fretta a superare un lutto, a quell’età sei sano e capisci a naso che il dolore non lo si può portare addosso come un’armatura e che va lasciato indietro perché possa fiorire in qualcosa di buono, perché possa trasformarsi.
Nell’arco di tempo tra i cinque anni delle passeggiate con lei al cimitero e i diciotto anni di quando l’ho accompagnata per l’ultima volta lì per il suo funerale, mia nonna è stata una specie di ininterrotto angelo custode, sempre vicina, sempre con il grembiule e il cucchiaio di legno in mano, per il ragù che cuoceva sul fornello, sempre mia.
Dormivamo in camera con lei io e mia sorella, all’epoca si faceva così se non avevi abbastanza spazio in casa, e russava come un trattore, questo nostro angelo alto un metro e cinquanta, lesto a commuoversi alle lacrime quando mi sono venute le mestruazioni, capace di deridere con dolcezza tutte le mie tragedie adolescenziali, pronto a difendermi dalla severità dei miei genitori con una parola ironica, uno sguardo complice, una carezza.
Com’era morbida mia nonna.
Quando mia sorella torna accanto me, scoppia a piangere, sono diventati due mummiette marroni dice.
Io fisso il telo in plastica che li protegge ai miei occhi.
Superstiziosa è furente, Paraocchi giace affranta sugli scalini cercando qualcosa di ragionevole da dire, Poetessa continua a restare in silenzio; così si fa avanti in punta di piedi Curiosità, alla fine ha trovato il coraggio di farsi viva.
Il fatto è che so bene che il telo copre tutto e io non mi avvicinerò, ma sotto sotto io li vorrei vedere i miei nonni.
Ed è per curiosità, pura e semplice.
Ma non ho il coraggio di andare da loro.
Sono lì sdraiati, in attesa di essere trasferiti nella bara di cartone e poi seppelliti in terra come la procedura richiede, e io non li vedrò, se non in controluce, attraverso gli occhi piangenti di mia sorella che mi racconta.
Del resto è giusto così, no? Loro sono morti trent’anni fa, morti, morti, morti, diciamola questa parola che fa così paura, sono morti e di conseguenza io li ho salutati per sempre.
Come diavolo si spiega allora che i loro corpi siano stati riportati ancora qui in mezzo ai vivi… Mia nonna era morbida, la sua fede nuziale dove sarà finita, non lo so, ma lei era morbida e io pensavo che sarebbe durata per sempre, sì, ma non intendevo questo.
Aiuto.
Mi pervade un senso di separazione da me stessa, sale un muro di fango tra lo stomaco e il cuore che non so mica dire che cos’è, ma grosso modo è qualcosa che riesce a farmi stare in due posti ben separati ma contemporaneamente. Una specie di uscita di sicurezza.
Sento la mia testa diventare leggera e rotonda, espandersi, occupare tutto lo spazio del cimitero, arrivo a sfiorare il tetto del cielo. Mi sento galleggiare.
I miei nonni adesso sono laggiù, minuscoli, da questa altezza sembrano due puntolini neri. Due innocui puntolini neri lontanissimi, non possono farmi nulla, non possono toccarmi.
Aspetta.
Non è così che risolvi la cosa, Signorina Superstiziosa.
Loro sono ancora lì, lo sai, sono ancora lì tutti interi dopo che tu li hai sepolti una vita fa: è questo il controsenso che ti rode, e ti fa sperare con tutte le tue forze di volartene via, ma tu non volerai da nessuna parte, non sei un palloncino o un uccello, di sicuro non sei una rondine.
Non c’entri nulla tu, con le rondini che stanno cucendo i pezzi di cielo stamattina.
A Poetessa finalmente si è sciolta la lingua, deve sempre rovinare tutto ma fra me e lei resta pur sempre quella che ha il dono della comprensione.
Ha ragione, lo so. In quel suo soffermarsi a osservare dettagli smaschera sempre le mie piccole verità.
Mi rimpicciolisco con un sospiro che non udirà nessuno.
Risento la pietra fredda su cui sono seduta e il contatto leggero del braccio di mia sorella.
“Non fanno impressione, hanno ancora i loro vestiti, è solo l’odore che è terribile”.
“Io tutte le sere mi faccio una doccia che dura tre ore” aggiunge il dipendente del Comune guardando lontano, oltre il cancello di ingresso.
Che lavoro di merda, sfugge a Superstiziosa. Ma lui per fortuna non è in grado di sentire le mie vocine interiori, e poi ha uno sguardo stanco, di uno che fa quello che deve fare ma se fosse per lui il mondo non girerebbe così.
Perché noi prima seppelliamo i morti, poi a un certo punto decidiamo di spostarli.
La nostra società ci impone regole stravaganti, che ci rendono alieni alle leggi a cui obbediscono tutti gli altri esseri viventi. I morti li custodiamo in bare fatte di legno e metallo, cosicché i corpi non possono compiere quasi nulla di quel processo che permette alla materia di soddisfare la sua eterna spinta a trasformarsi.
Eppure quando in un bosco un animale muore, senza drammi o patemi si tramuta lentamente in un’altra forma di vita, la pioggia e il sole lo cullano durante questo passaggio, gli altri animali compiono il rito del suo disfacimento, e infine la terra lo accoglie e se ne nutre.
Ma noi no, non possiamo, la terra la teniamo ben lontana dai nostri fragili e venerati corpi. In più peggioriamo le cose complicandole con le nostre burocrazie sofistiche, che ci obbligano a spostare le salme nei cimiteri di qua e di là.
Quindi niente, eccoci qui, al bivio insensato di questa mattinata cimiteriale.
I lavori intanto proseguono, le stanghe in ferro delle bare vengono ridotte in parti più piccole per essere trasferite sul camioncino, gli operai lavorano speditamente e dietro il gazebo continuano i rumori inquietanti di mazza e martello.
E i miei nonni sono là sdraiati, vulnerabili così esposti all’aria dopo tutti questi anni.
Avverto così fortemente la loro presenza.
Come se un solo istante fosse passato e non trent’anni, risuona vivo nelle orecchie il passo di mio nonno, rivedo i suoi occhi azzurri e schietti, e da adulta capisco finalmente tutto il suo amore per nonna, sdraiata accanto a lui.
Si sono ritrovati oggi, saranno contenti di poter stare ancora un po’ vicini.
Ma io non posso concepire che i loro corpi siano ancora presenti.
Non è normale, non è giusto.
Riporta in vita ciò che vivo non è.
E come la concilio io questa cosa con l’aver preso commiato da loro trent’anni fa, come farò stanotte a passare nella stanza in cui è morta mia madre nemmeno sei mesi fa, come farò a non dormire con la luce accesa.
Poetessa, sforzati di dire qualcosa di intelligente, dai, che magari ci scrivi qualcosa, su questa mattina di giugno passata all’inferno. Non mi risponde.
Aiuto.
I pakistani silenziosi passano davanti a noi trasportando i resti delle casse.
Hanno uno sguardo serio e delicato.
Ecco cosa li faceva sembrare monaci: stanno svolgendo quel compito consapevoli di farlo.
Semplicemente sanno che si stanno occupando di persone.
Lo si vede da come sono misurati i loro movimenti nello spostare oggetti, sono lì tutti interi, presenti in quello che stanno facendo, non hanno la testa altrove, come sarebbe anche comprensibile, oltretutto.
Tutt’altra cosa per esempio dai funzionari delle pompe funebri che mi è capitato di incontrare in vita mia, tutte brave persone per carità, ma con quella gentilezza convenzionale che non può che rimanere fredda. Sarà il loro modo di salvarsi da un lavoro difficile, non so.
Ma loro no. Loro si stanno prendendo cura di momenti che sono fatti di cristallo, anche se spostano cose pesanti e sono sporchi di polvere di cemento.
Mentre sfilano davanti a me i pezzetti della bara color mogano anni ’80 di mio nonno, scorgo anche un quotidiano ingiallito. Qualcuno deve aver infilato nella cassa il giornale il giorno del funerale, forse perché a mio nonno piaceva andare a leggerlo al bar tutte le mattine.
Alfredo Toni, amante del Nabucco, della peperonata e tifoso della SPAL, nato nel 1900, comunista fino al midollo e sempre disposto a prendere in giro tutti, soprattutto il prete.
Quando tu eri vivo, Alfredo, io ero una bambina, quando tu eri vivo io avevo tutta la vita davanti e ci rincontriamo adesso, con il tuo giornale del bar tutto impolverato e puzzolente?
A te questa sembrerà proprio una bischerata, ma niente santi in rima, nonno.
Mi scappa un sorriso.
E quella volta che mi hai fatto bere vino e la mamma te ne ha dette di tutti i colori mentre io sbattevo allegramente la testa a destra e sinistra negli armadietti della cucina, ubriaca fradicia?
Che peccato che i nonni e i nipoti facciano pezzetti di strada così piccoli insieme.
Io mio nonno avrei voluto conoscerlo adesso, non quando avevo tre anni e non capivo niente.
Ti devo cercare, nonno, da qualche parte lo so che ci sei, dentro di me.
Di sicuro non sei più qui.
Le ruspe hanno concluso il loro lavoro, le bare di cartone sono al sicuro sotto terra. Almeno in parte la natura è risarcita e potrà recuperare il tempo perduto.
Uno dei pakistani ci viene vicino, dice di non preoccupare, che mette a posto lui fiore di nonni quando suo lavoro finito. Ha capito che mia sorella è preoccupata che tutto venga fatto per bene e la tomba dei nonni sia bella, per quel che si può.
Non ci preoccupiamo, no, perché sappiamo che lo farà davvero.
Io invece non lo so quando tornerò a trovarli, al cimitero ormai chi ha tempo di andarci, non è più come una volta.
Poetessa, le vedi adesso le rondini come volano alte?
Secondo me sono le storie delle persone sepolte qui.
Volano alte, e aspettano una nonna e una nipotina che vengano a fare una passeggiata qui. Al cimitero.
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